Io ero vivamente addolorato di non poter dare nessun aiuto, nessun conforto, in quell'ora solenne, al giovane eroe, poiché anch'io mi sentivo morire.
Poi egli si raccoglieva in sé, su un lato, invocando, tra penosi lamenti, il nome della mamma.
Entrava in agonia.
Un soldato, che indossava la stola, forse sacerdote, lo assisteva nel trapasso.
Anche quell'ufficiale, sepolto, nella fresca giovinezza, lassù, in un piccolo cimitero di guerra, mi è rimasto vivo nella memoria.
Quel che molti temevano non tardava, purtroppo, ad avverarsi. Gli austriaci, dinanzi alla nostra inoperosità, rafforzati da truppe scelte tedesche, nel successivo ottobre, ci attaccarono violentemente. Superate facilmente le gole di Caporetto, dilagarono nel basso. Non vi era un altro Mario a disfare, nella loro irruenza, quelle barbariche orde.
Quando giungeva anche a noi, d'improvviso, l'ordine d'abbandonare la Bainsizza, ero in pietose condizioni. Era stato già disposto il mio trasferimento, a mezzo di un'ambulanza, in un ospedale dell'interno. Non solo rifiutai d'andarvi, ma, nel nuovo pericolo, corsi a riprendere al battaglione il mio posto. Ne ebbi dal comandante un severo rimprovero. Secondo lui gli ammalati, in quelle contingenze, potevano procurare fastidio non aiuto.
Poteva aver ragione, ma non nel caso mio, con il mio temperamento. Mi reggevo, in verità, per le lunghe sofferenze, per il lungo digiuno, per le forti febbre, appena in piedi; ma il mio spirito era sempre saldo.
Ad essere rimasto al mio posto non poco il battaglione ebbe a guadagnarne. Usciva, quasi per mio merito, con onore dal generale disfacimento.
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