Nelle ore libere mi raccoglievo a Giffoni come nella terra dei Sidicini, nella lettura dei miei libri, che costituivano la vita della mia vita. Talvolta, nemico sempre delle inutili compagnie, per meglio pensare e meditare, andavo su per le valli, coperte d'ulivi e di castagni.
Qualche volta sostavo su la collina alberata, nelle vicinanze del convento di S. Antonio, profumato nel giugno dai candidi gigli.
Nel vedere i frati, aggirarsi beatamente nel recinto, anch'io, per la mia pace, avrei voluto là rifugiarmi. Non dovevo entrare a Teramo in Seminario?
Ma ne ero da altra considerazione distratto. Se la vita, con gli affanni e le passioni, era una lotta, non la si doveva disertare.
Nella mia vita d'ozio ebbi ad assistere un giorno ad uno spettacolo, che poteva commuovere, far pensare. Era di luglio e la persistente siccità stava per rovinare tutto il raccolto della fertile vallata. Come era nella consuetudine, si organizzava una processione così detta di penitenza, diretta ad implorare la grazia dell'acqua, al santuario di Santa Maria a vico. Vi partecipavano, con le insegne, con gli stendardi, le croci, le reliquie più miracolose, compresa la Spina santa, conservata nella chiesa dell'Annunziata, le autorità, il clero, il popolo.
Si elevavano, nella mistica marcia, fatta a piedi scalzi, canti, inni, accese invocazioni. Numerosi penitenti, a maggiore espiazione dei propri peccati, causa di quella punitiva siccità, con grosse funi e catene di ferro, picchiavano violentemente, quasi a sangue, le proprie spalle. Per qualcuno il parossismo arrivava a tal punto che dovevano intervenire persone meno accese per far mitigare quel mistico furore.
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