T. Col. Umberto Adamoli
NEL ROMANZO DELLA VITA (MEMORIE)


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     Buono, invece, era il marito Luigi, sempre sereno, gioviale nobilmente affabile. Parlava dell'antico stato, nel quale in parte era vissuto, come si può parlare di un paesaggio, ricco di meraviglie, visto in una giornata di sole, in un felice viaggio turistico.
     Il figlio, Pietro, molto aristocratico, biondo come la mamma, educato nei ricordi del passato, trascorreva il tempo con amici buontemponi, tra la caccia, il circolo e i viaggi.
     Le donne se ne rimanevano chiuse in casa, come in un chiostro, anch'esse viventi nei ricordi di quella grandezza, che appariva ancora nell'ampio cortile, guardato da feritoie, come in un castello, sempre chiuso; nel vasto giardino, alberato in parte da aranci e da mandarini; negli stemmi, nei ritratti, nei mobili artisticamente intagliati, ma tarlati e stinti, malinconica sopravvivenza d'un passato che non sarebbe più tornato.

     Io ero accolto in quella casa, nella educata adolescenza, con molta festa. Le zie, cugine della mamma, erano ancora giovani. L'Emilia, ultima, adorna di fresca grazia, aveva di poco superato i venti anni.
     Vivevano, queste zie, come fiori chiusi in serra, con molti sogni, con poche speranze.
     Nei pomeriggi, d'estate, mentre si frescheggiava nel giardino, facevano a me le loro confidenze.
     S'adattavano, do qualche anno, a sposare due vedovi, di buon nome e in buone condizioni finanziarie, ma non erano gli uomini da esse desiderati.
     Dramma penoso, quasi sempre comune alla nobiltà decaduta. Coloro che, per nascita, avrebbero potuto varcare la soglia, di là della quale ardevano due gentili anime, non lo facevano, non vedendovi l'altro requisito; quello dell'oro, a cui pochi eletti sanno rinunciare; gli altri non l'osavano, per non essere sdegnosamente respinti, o, nei migliori dei casi, per non cadere in quegli ibridi connubi, dai quali, per la differenza di cultura, di educazione, di sensibilità, vano è sperare in una serena tranquilla convivenza.


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Umberto