Intanto, mentre si faceva giorno, apparivano i segni della città non lontana. Appariva lassù, raccolto sul suo cocuzzolo, Castellalto; appariva su la stessa direzione, più avanti, la bella cupola, sul fabbricato bianco, tra pini verdi, della Specola, onore dell'illustre conterraneo astronomo Vincenzo Cerulli; appariva in fondo, lontano, tra nuvolette, leggere come vele, la cima bianca del paterno Gran Sasso. Ma appariva d'improvviso, dandomi un tuffo al cuore, la stazione, dove s'era ormai arrivati.
Ed arrivai pure nel centro della città, nella piazza del Duomo, quando la vita vi dava i primi segni. Vi volavano i piccioni, vi passava qualche spazzino, qualche guardia, qualche mattiniero, che visitava i caffè, i soli esercizi già aperti, distribuendo l'aromatica bevanda a cinque centesimi la tazza.
Vi passava pure qualche prete e qualche bizzoca, con il tradizionale scialle, diretta alle prime messe.
Entrai anch'io in un caffè, in attesa della mia ora. Quando uscii il negozio dello zio, nel corso San Giorgio, era ancora chiuso. Ancora un po' di respiro. Vi passai innanzi più volte, con la mia valigetta, come per acquistarvi confidenza, per attingervi coraggio. Giunse anche l'ora di entrarvi, e vi entrai timidamente, come un colpevole. Avvenne l'incontro, per il quale avevo tanto trepidato, in un modo molto drammatico, tra brontolii di tempesta. Capii subito, dall'espressione del volto, dalla vivacità delle parole, che presso quello zio non vi era niente da fare. La mia speranza, una volta dinanzi a lui, di poterlo commuovere, di poterlo convincere a trattenermi presso di sé, affinché potessi riordinare, completare i miei studi, dolorosamente falliva.
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