Giunse nel frattempo, nel negozio, il fratello Vincenzo, che stava con lui. Si presentava bello nella sua fresca adolescenza. Alto era, di fattezze delicate, simpatico di modi e d'aspetto. Incontro, dopo circa quattro anni, affettuoso, commovente, ma malinconico. Anche lui non pareva contento. Alla sera, quando restammo soli, mi parlò della vita di schiavitù, in cui viveva: vita insopportabile, che tante volte s'era proposto d'abbandonare. Viveva là in perfetto regime militare, controllato sempre e rimproverato senza ragione. Vi erano, inoltre, di quelli che, o per cattivo animo, o per disonesti fini, soffiavano nel fuoco. Capivo, nel compiere quel passo, d'avere errato. A Salerno, ad ogni modo, chiuso a qualsiasi avvenire, non intendevo tornare. Non rimaneva, di conseguenza, che di riprendere l'idea, già un tempo ventilata, della carriera militare. Ne parlavo allo zio, anche per toglierlo da quello stato d'agitazione, in cui era, per la mia presenza in casa sua. Approvava, non solo, ma magnificava la mia determinazione. Sceglievo, anche per ragioni economiche, l'arma di quei soldati dalle fiamme gialle, che avevo visto, allegri e disinvolti, sulla strada di Maddaloni. Ma la domanda non era per il momento accolta, non avendo ancora compiuto i diciotto anni, necessari per l'arruolamento.
Diciotto anni! Età bella, anche nella sventura, che dura, però, come dura una rosa di maggio, con il suo profumo, in un fresco giardino fiorito. Sboccia, irrorata di rugiada, ai tiepidi raggi, sfolgora, con il sole, la sua delicata bellezza, appassisce, quindi si sfoglia, si disperde, diviene cenere, nel mistero del nulla... |