Alla sosta pensosa seguiva la ripresa della lettura di quegli scritti, nei quali pił forte vibrasse il sentimento del dolore; pił forte s'esaltasse l'amore per la donna, per la madre, per la razza, per la patria.
Sapevo quasi a memoria i canti del Leopardi, le "Ultime lettere di Jacopo Ortis", i brani pił belli delle prose del De Amicis.
Leggevo e rileggevo, pure, il libro di quello scrittore umano e gentile, che rappresentava, appunto, nelle gioie e nei dolori, nella prosa e nella poesia, nei dubbi e nella fede, quel piccolo mondo, chiamato antico, entro il quale io vivevo.
L'ora pił malinconica era quella della sera, quando, caduto il sole, le ombre avvolgevano, come gigantesco manto, le valli, i boschi, i monti. L'ora in cui gli ultimi segni dei viventi provenivano dalle campane, che, in armonioso accordo, particolare alle vallate alpine, suonavano, negli sparsi paeselli, la dolce Avemaria.
Salivano, dopo, e si diffondevano i rumori della notte: canti d'uccelli notturni, trilli d'insetti, fruscii di foglie, sospiri di alberi, sospiri d'acqua e di esseri invisibili.
Le tenebre, che s'infittivano, erano di tratto in tratto, a tempo misurato, rotte dal fascio luminoso della torpediniera, di servizio notturno sul lago.
L'anima mesta ed oscura come la notte, col sorgere ad oriente dell'aurora si riconfortava, si riapriva alla gioia, alle speranze, rosee anch'esse come l'aurora.
In tal modo s'alternavano i giorni alle notti; s'alternavano la vita solitaria, vissuta in montagna, e la vita vissuta nel movimento dell'umano consorzio.
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