Erano contrabbandieri. Destato il compagno, balzammo, risolutamente, su di essi. La mischia, in una indicibile confusione, era di breve durata. Nella sorpresa non erano in condizione d'opporre alcuna resistenza. Nel timore di peggio ognuno cercava di disfarsi del carico, per gettarsi, come camosci, giù per i burroni. Nessuno, infatti, poté essere arrestato, ma lasciavano, sul terreno della mischia, molti quintali di tabacco, racchiuso in sacchi a zaino, bastoni, roncole, giacchette, berretti ed altri oggetti.
Un vero campo di battaglia.
Vivemmo, il resto di quella notte, in particolare esultanza, per la bella battaglia vinta.
In quel posto pensavo di regolare lo studio, in modo da trarne il maggiore profitto. A tale scopo, con il permesso dei superiori, mi presentai un giorno al collegio arcivescovile di Porlezza, ove ero stato bene accolto e ascoltato dal rettore, che fu poi Vescovo di Fermo, monsignor Castelli.
Subito dopo, percorrendo a piedi, tra andata e ritorno, ben venti chilometri di pessima e pericolosa strada, nei turni liberi dal servizio, s'intende, mi recavo a scuola in quel collegio.
Tutti avevano colà per me premure, in modo particolare il professore don Luigi Rossi, che m'impartiva, con le sue quattro lauree, lezioni su quattro diverse materie.
Questo bravo professore m'accompagnava, talvolta, per lunghi tratti, per completare, sulla via del ritorno, qualcuna delle sue lezioni.
Come si vede, nel mondo vi sono bure anime buone!
Non mi accontentavo di quelle lezioni. Nell'avidità d'apprendere ne truffavo pure qualcuna, ma in forma onesta. Frequentava il ginnasio di quel collegio un ragazzo di Oria, che vi si recava, però, comodamente, con il piroscafo. Nella sua svogliatezza aveva affidato a me, tra l'altro, lo svolgimento del compito d'italiano. Ne ero felice. Le osservazioni dei professori, s'intende, giovavano pure alla mia cultura.
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