Parlava la mite Sofia, con facile parole, con grazia lombarda, con candida ingenuità. Io non so perché anche lei, bocciuolo non ancora dischiuso, mi ricercasse.
I nostri discorsi, nelle tenue parole, nei vaghi argomenti, si discioglievano, come piccoli canti, in delicate liriche poesie.
Alla mia partenza, pure lei versava lagrime. Quando, qualche anno dopo, avevo notizie di Oria, sapevo che la soave fanciulla, dal candido animo, s'era rifugiata, monaca, in un convento di Torino.
Aveva abbandonato il mondo, e, forse, aveva fatto bene.
Passava così l'estate, passava l'inverno. Dalla mamma lontana, sempre viva nel mio animo, ero messo al corrente delle vicende familiari.
Con la primavera successiva, come ad un premio, ero prescelto per uno speciale servizio, su i piroscafi, che percorrevano il lago, carichi di turisti d'ogni nazionalità. Turisti che portavano, per chi li osservasse, ben segnata sul viso l'impronta della propria razza. Arcigni apparivano gli inglesi, flemmatici, biliosi, superbi; serio, invece, riservato, ragionevole il tedesco, anche se qualche volta non riusciva a celare l'orgoglio della forte stirpe, alla quale apparteneva; buono, generalmente, si dimostrava il russo, mistico, dolente, forse per la schiavitù, in cui ancora viveva; ciarliero, invece, appariva il francese, espansivo, nella sua facile sciolta loquela.
D'ognuno, dei rappresentanti di quei popoli, si sarebbe potuto fare, con uno studio su di loro, curiosi bozzetti.
Tutti ammiravano l'Italia, nelle sue bellezze naturali, nelle divine opere dei suoi geni, nella sua lingua armoniosa. Non tutti, però, avevano stima per il suo popolo. Avevano pure per noi parole offensive, che io rintuzzavo risolutamente. Trattai da vile un austriaco, che mi ricordava, un giorno, beffardamente, Lissa. Non mi trattenni, un altro giorno, dallo scagliare una moneta d'oro, contro un tronfio inglese, che ci chiamava pezzenti.
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