T. Col. Umberto Adamoli
NEL ROMANZO DELLA VITA (MEMORIE)


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     La pancetta doveva servire, intendiamoci bene, non per vero e proprio companatico, che sarebbe stato troppo lusso, ma soltanto per dare al pane, sul quale era delicatamente strofinata con un po' di aglio, un leggero suo sapore.
     In tal modo potevo mandare alla mamma, puntualmente ogni mese, non meno di trenta lire.
     Un vero miracolo, che poteva, però, destare a superiori infami, come quello di Oria, iniqui sospetti.
     E la cattiveria continuava.
     Nel gennaio, mentre il tenente, che mi proteggeva, era in licenza, una valanga, distaccatasi nell'alta montagna, travolgeva, nella caduta, undici finanzieri, partiti per la ricerca di altri militari, sperduti nella neve.
     Il maggiore, accorso sul posto, ordinava al brigadiere di distaccare subito lassù, al reparto di prima linea, da Porlezza, un certo numero di militari, necessari a reintegrare, in parte, i morti. Io ero, naturalmente, tra i prescelti. Se io volevo studiare, mi si diceva, me ne sarei potuto rimanere a casa. Così mi si diceva, e quel giorno stesso viaggiavo, con la mia roba, su un difficile sentiero, per il luogo della sciagura.

     La notte che seguiva vegliavo su una montagna di neve, sotto la quale erano sepolti, per l'eternità, i poveri compagni, eroiche ignorate vittime del dovere. Vegliavo, senza che vi fossero, in quel desolato mondo bianco, da cui ero circondato, segni vicini o lontani di vita. Vegliavo, mentre nella neve, che continuava a cadere, urlava violenta la tormenta, assordava il fragore delle valanghe, che precipitavano, da punti diversi, dall'alto verso il basso.


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Umberto