Io andavo avanti con sufficiente sicurezza, ma il compagno, meno allenato, ad un tratto si sentiva venir meno le forze. Senza misurare il pericolo mi lanciavo in suo soccorso. Poggiandosi, giudiziosamente, con una mano su di me, mi lasciava libero il movimento del nuovo. Ad un certo punto anch'io non ce la facevo più; anch'io bevevo acqua, affondavo, annegavo. Un palo ed una fune che i pescatori tenevano là, nel mare, per le loro reti, a cui io mi potei afferrare con la forza della disperazione, ci salvava.
Per lo sforzo fatto dovetti rimanere a letto, con la febbre, più giorni.
"Non era giunta la sua ora", potevano sentenziare i sostenitori del fato.
"La resistenza, la padronanza di sé, la forza della sua volontà lo salvavano", potevano contrapporre i suoi negatori.
Sopravvivevo all'insidie, questo è certo, e potevo continuare a vivere nelle mutevoli vicende della povera vita.
Non appena mi fu consentito, mi presentai a Roma all'ardua prova degli esami, per l'ammissione alla Scuola per gli Allievi Ufficiali, che superai quasi come un miracolo. I posti messi a concorso, per quell'anno erano diciotto, i concorrenti trecento, con titoli di studio, ben preparati.
Giunsi a Caserta, per l'inizio del primo anno accademico, il 4 novembre. Nell'entrare nel Palazzo Reale, sede dell'Accademia, un senso di sgomento mi invadeva. Non potevo non rammentare i re, ch'erano passati per quella reggia, una delle più grandiose del mondo; che vi erano passati con le passioni, con la magnificenza della loro grandezza, con la forza della loro potenza.
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