T. Col. Umberto Adamoli
NEL ROMANZO DELLA VITA (MEMORIE)


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     La vita dei nostri progenitori non doveva essere, poi, così brutta, se noi, dell'età delle mollezze, ci eravamo bene adattati a vivere, nella trincea di morte, la stessa primitiva loro vita.
     Rendevano la loro opera, in quell'ospedale, i migliori chirurghi, tra cui il ben noto professore Carle, ed un ordine di suore molto distinto. Si prodigavano a nostro favore con affetto davvero di sorelle. In un momento in cui pareva che nella mia ferita si dovesse sviluppare un'infezione, e la febbre saliva, una di esse rimaneva a me vicino anche di notte, con materna sollecitudine.
     La sera ci facevano giungere, da una vicina cappella, i loro sacri canti, in cui si distingueva una limpida voce di soprano, che vivamente inteneriva i nostri già sensibili animi di guerra.

     Anche i cittadini, che ci visitavano, si mostravano con noi affettuosamente premurosi.
     Ci visitavano pure le autorità ed alti personaggi, tra cui Paolo Boselli, allora capo del governo, che ci esprimeva, per il nostro sacrificio, la gratitudine della patria.
     Pur nelle nostre sofferenze non pareva, in fondo, tanto brutta la professione dell'eroe, specialmente quando a rendere omaggio al nostro valore si presentavano anche belle signore.
     La donna, con il fascino della sua grazia, finisce sempre di rendere luce alla notte, gioia al dolore.
     Tornavo a riprendere il mio posto al fronte, a mia domanda, dopo tre mesi, con la ferita ancora aperta, e tornavo al mio reparto, sull'Altipiano di Asiago, accoltovi festosamente.
     In uno di quei giorni stavo ancora per rimanere vittima del mio troppo zelo. Uscito da solo dalla trincea m'ero spinto, per una ricognizione del terreno, sotto le posizioni del nemico, che bene vigilava. Ad un certo punto, per poter meglio vedere, salii su di un rialto. Guardando il forte del Lucerna, che stava in alto, a guardia della vallata, vidi da uno delle sue cupole in movimento uscire una bocca di cannone. Contro uomini isolati non si sparava, generalmente, con cannoni, quindi non me ne preoccupai. Udii, intanto, partire, vedendone la fumata e la fiammata, un colpo e udii il sibilo del proiettile, che correva proprio verso di me. Prima che me ne potessi rendere conto, per un tentativo di salvataggio, il proiettile rumorosamente arrivava, ma non mi colpiva. Penetrava, invece, nella parte bassa del rialto, sul quale io mi trovavo, e scoppiava. Con il terriccio, i sassi, le schegge, andai pure io in aria, per ricadere di sotto, come morto. Per un po' mi ritenni davvero spacciato e quel tanto di percezione, di vitalità che, disteso a terra, ancora avvertivo, l'attribuivo ad un indugio del mio spirito a prendere il volo verso il regno dell'eternità.


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Umberto