Lasciammo poco dopo Coblenza con il rammarico di non aver potuto arrestare l'attimo fuggente, ma con il conforto di vedere tutto il suo popolo, in un commovente delirio, a salutarci alla partenza. Ma subito dopo altro mondo di bellezza s'apriva dinanzi a noi. Si percorreva il Reno, colmo di leggende, soffuso di mestizia, con l'animo intenerito. Non vi era casa, non vi era torre sulle due rive su cui non sventolassero fiammanti bandiere. Non vi era abitato, piccolo e grande che non ci inviasse, con sale di bombarde, il festoso saluto.
Quando lungo il cammino la banda della Gioventù italiana, che ci accompagnava, intonava lento e solenne il magico inno tedesco, avveniva qualche cosa che aveva del sovrumano. La vita, toccata dal divino, pareva che s'arrestasse. Fermo era il naviglio sul Reno, fermi gli uomini sulle strade, sulle terrazze, sui colli: fermi e rigidi sull'attenti, nel saluto romano. Fermo ogni movimento, anche d'uccelli, come per magia. Le note ed il canto dell'inno prodigioso mutavano la vita in un sogno magico."
Sospendo il diario e riprendo la narrazione. Nello stesso anno 1939 s'affidava a me, per superiore benevolenza, le sorti del comune di Teramo. In tal modo, nello svolgimento delle vicende umane, il ragazzo di Rocciano, che aveva scorazzato per i valloncelli, su per i colli, lungo il Tordino, con i coetanei contadinelli, saliva le scale di quel palazzo che egli aveva rimirato allora e considerato come un santuario, ove ufficiassero misteriosi, austeri, solenni sacerdoti.
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