A sera scendemmo nel basso, per ascoltare da vicino la voce del Tordino, anch'esso, per i ricordi che raccoglieva, per noi sacro. A notte, con qualche cosa d'indefinibile nel cuore, rientrammo a Teramo.
Ma altro pellegrinaggio, sotto la spinta della nostalgia, volli compiere pił tardi a Tempera, che doveva considerarsi la vera culla degli Adamoli del ramo abruzzese. Lą il nonno si rifugiava, da Como, nella sua odissea politica; lą si era incontrato con colei che doveva essere la sua fedele compagna. A Temera nasceva il babbo, dove noi stessi eravamo vissuti, in serenitą, per qualche anno.
Anche in questo viaggio m'accompagnavano due figli di Federico: Giovanni e Fernanda.
Vi andammo dall'Aquila a piedi quasi per godere, per abbeverarci di quell'aria che alitava intorno, un tempo respirata dai nostri cari. Vi andammo passo passo, quasi per argomentare su ogni sasso, su ogni poggio, su ogni boschetto, dove i nostri potevano esser passati, potevano aver sostato, riposato. Prima che si giungesse vedemmo il bianco villaggio ancora lontano, come nascosto in una verde oasi. Ogni qualvolta si voleva sostare, essendo molestati dal caldo di agosto, una forza ignota ci spingeva oltre. Nelle vicinanze un uomo dei campi ci consigliava di raggiungere, per la fermata, la sorgente a me ben nota.
Era un luogo davvero di fate. Acqua scaturiva, zampillava da ogni parte, nel basso e nell'alto. Non era agevole penetrare nella boscaglia, piena del suono d'una cascata dall'esterno invisibile. Ma sospinti dall'ansia vi penetrammo e, arrampicandoci per un terreno scosceso, giungemmo alla sorgente voluminosa d'acqua, uscente ghiacciata da una grotta, anch'essa avvolta dalla freschezza della boscaglia. Nulla si scorgeva intorno se non cespugli, frasche, alberi frondosi, in modo che da lassł pareva come se si fosse sospesi in aria, in una nube verde, con scroscio di pioggia.
|