Umberto Adamoli
NEL TURBINIO D'UNA TEMPESTA
(DALLE PAGINE DEL MIO DIARIO. 1943/1944)


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     Non far allontanare la popolazione dalla propria residenza significava, in quel disgraziato momento, evitare, sotto ogni riguardo, i turbamenti determinati dagli affrettati sfollamenti; significava mantenere nella propria contrada intatta la produzione, tanto necessaria ai bisogni nazionali; significava mantenere in efficienza l'ordinamento, dal quale la comunitą traeva il suo ordine, la forza della sua disciplina, le ragioni della sua integritą e della sua continuitą, la certezza del suo sviluppo.
     Ad ogni modo, tra i marosi della tempesta, che diveniva sempre pił minacciosa su la povera Italia, io non dovevo preoccuparmi d'altro che di compiere tutto il mio dovere, a qualunque costo, sino in fondo.

     Intanto, anche gli ineffabili Alleati festeggiavano, in Abruzzo, l'inizio dell'era nuova, la caduta di quello Stato che aveva osato di accompagnare con le armi, di lą dal mare, nelle lontane terre vergini, nel cuore dell'Abissinia, i propri esuberanti figli, avidi di spazio, bisognosi di lavoro. Quello Stato che aveva osato, nello spirito delle giuste rivendicazioni, di alzare la voce per la libertą del Mediterraneo e delle sue porte; che aveva osato di inculcare ai figli di Roma, contro l'Anglia aviditą di dominio e di potenza, con il senso dei suoi diritti, un nuovo forte spirito.

     La festa doveva essere tale quale la imponevano gli eventi in atto. La localitą, come inizio, doveva essere scelta in quella terra, ove un altro maniaco, che poteva rispondere al nome di Gabriele D'Annunzio, aveva osato anche lui, con il malato genio, elevare alta la voce per risvegliare i dormienti, per esaltare le virtł, i diritti, le glorie vecchie e nuove della stirpe sacra.


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Umberto