Poi, ad un cenno del loro cappellano, senza muoversi dai letti, su i quali erano seduti o coricati, un canto lento, largo, armonioso usciva da quei petti in pena, che davvero commuoveva.
Quel canto mi riportava, con lo spirito, ad un altro canto, di uguale intonazione, rimasto vivo nel fondo del mio animo, che molti anni prima, in un altro Natale di guerra, avevo sentito salire, nel cuore della notte, tra l'infuriare della tormenta, dalle trincee e dai fortini occupati dai Tedeschi, di fronte alle nostre linee, nella zona di Rovereto.
Quei cori, pieni dì nostalgia e di solennità, non potevano non operare sulla nostra sensibilità latina, e non farci considerare, in una viva pietà, le sorti di quel popolo, pur ricco di tante alte qualità, pur glorioso nella storia del pensiero e dell'umano incivilimento, che era stato, in contrapposto, sempre condotto, dalla sfrenata ambizione dei suoi capi, alla rovina.
La sera mistica faceva pure pensare come mai, dopo tanti secoli da che era stata pronunciata la parola di pace, tanta cattiveria, tanto odio angustiasse ancora l'umano genere.
Ma ricordando, con quel canto, la grande guerra, ricordavo anche l'entusiasmo, la concordia, la fede, da cui eravamo stati sostenuti durante i quattro anni di sacrifici inauditi e di sangue. Quel sangue della più bella giovinezza, che arrossando abbondantemente il terreno delle aspre battaglie, aveva pure condotto, nella luce sfolgorante di Vittorio Veneto, con le ultime sante rivendicazioni, con il raggiungimento glorioso dell'unità nazionale, alla nostra nuova grandezza.
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