Con quel ricordo non si poteva non dolorare sulle nostre nuove sventure, alle quali eravamo stati trascinati dall'insensato altrui egoismo, dallo spirito infernale, che sconquassava ferocemente il mondo.
Uscito da quell'Ospedale, pieno di pensieri, riprendevo la via per ritornare in famiglia. La cittą, che, negli anni precedenti, era sempre apparsa, in quella ricorrenza, viva di movimento, sfarzosa, nei caffč e nelle drogherie, di luce e di dolciumi, giaceva, come in lutto, nel pił assoluto silenzio. Nessun segno di vita nelle belle Chiese mute, nelle case ermeticamente chiuse. Deserte le strade, nella notte buia. Non s'udiva, qua e lą, che il passo cadenzato delle pattuglie di vigilanza sul coprifuoco, il grido di «Chi va lą», colpi di fucile e scoppi di bombe a mano. La vita non vi era sicura. Io stesso, nel girare la cittą a notte inoltrata, avevo sentito molto vicino il rabbioso fischio dei proiettili.
Prima di rientrare in casa, nonostante il nevischio e il pericolo, visitavo ancora gli sfollati, ricoverati nelle scuole di San Giovanni di piazza Muzi.
Erano raccolti nelle camerate ad essi assegnate, quasi muti, attorno ai tavoli, in frugale cena. I bambini, paffutelli e rosei, gią dormivano, su i giacigli, placidamente.
Apparivano quei locali, nella luce colorata e nella mestizia, come avvolti da un senso di misticismo. Pareva che, in un alto concetto, stessero davvero a rappresentare la nobile povertą, con la quale si orna il santo presepio.
Era diffuso, perņ, ovunque un benefico calore prodotto dai termosifoni, alimentati da quel carbone che io avevo tolto, integralmente, al riscaldamento degli uffici comunali; calore che, in veritą, ristorava, rasserenava, ravvivava.
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