Umberto Adamoli
NEL TURBINIO D'UNA TEMPESTA
(DALLE PAGINE DEL MIO DIARIO. 1943/1944)


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     Umani sentimenti mi inducevano ancora a riscaldare la vita sconsolata di coloro che, nel colmo dell'inverno, di giorno e di notte, senza indumenti e senza mezzi, si rifugiavano, quali sfollati o profughi, nella mia cittą.
     Mi č caro riportare l'indirizzo di una lettera a me diretta, con espressione di gratitudine, da uno di essi:
     «Al Podestą di Teramo, valoroso protettore dell'umanitą smarrita».
     Umanitą davvero smarrita. Giungevano a Teramo, questi nostri fratelli, dalle terre colpite dalla sventura, isolati, a gruppi, a brigate; giungevano con tutti i mezzi. Erano donne, bambini, vecchi, malati; erano famiglie intere, frazioni di famiglie, che avevano visto, nel partire, distrutti i loro beni, i prodotti dei loro campi, i risparmi delle loro fatiche, il conforto del loro dolce focolare domestico. Giungevano, nel pieno inverno, soli con la loro desolazione, con i segni profondi delle sofferenze e della sciagura, da cui erano stati cosģ ferocemente colpiti. Spesso non avevano con sč neppure il tradizionale fagotto di cenci, unico patrimonio del pellegrino randagio.

     Attendevo questi nostri fratelli, sperduti nella neve, sino a tarda notte. Li attendevo per prodigare loro quelle prime cure, con cibi caldi e locali riscaldati, con cui potessero riacquistare un po' di forza, una maggiore fiducia in sč e nella vita.
     Dopo la sosta fortunata, per rigorose disposizioni del comando tedesco, che attentamente controllava, dovevano riprendere, come deportati, il doloroso cammino. Ma molti di essi, da me favoriti, si rifugiavano ovunque vi fosse, per ospitarli, una casa, una capanna, un ricovero qualsiasi.


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Umberto