Il mio spirito attonito, attraversando le nere sbarre e la serena aria, nella quale guizzavano liete le rondini, saliva in quei momenti a trarre conforto in alto; saliva ai magni spiriti, un giorno anch'essi vittime della insensata umana malvagità. Se un dolore mi tormentava era per la mia buona compagna, la quale, dopo aver trepidato per dieci mesi su la mia vita votata al sacrificio ultimo, mi sapeva ora chiuso, senza ragioni, nelle sofferenze di una buia stanza, con lo stesso trattamento del comune delinquente.
Spesso, invero, le guardie irrompevano di giorno nella nostra camerata, per rovistare nei pagliericci, nelle coperte, negli indumenti, sottoponendo i detenuti, anche politici, che dovevano mettersi vicino al proprio giaciglio, a perquisizione personale.
Era sempre vivo nei custodi il sospetto che si potessero detenere o ricevere dall'esterno ordigni, con i quali commettere atti criminosi. Visite avvenivano anche di notte, in ore diverse.
Sul far del giorno, e poco prima della notte, le nostre orecchie erano deliziate dal rumoroso martellamento delle nere inferriate, eseguito per accertarne l'integrità.
Tutto come nei penitenziari più foschi, ricoveri di gente più tenebrosa.
Non sembrava concepibile che vi potessero essere là rinchiuse persone innocenti, dagli onesti mansueti sentimenti.
C'è da augurare che anche in quest'ordine i nuovi tempi portino un soffio di logica, umana modernità.
I giorni passavano così in quel severo regime, ma io non disperavo nella giustizia, che mai manca per gli onesti. Ogni sera le speranze cadevano con le ombre, che malinconicamente s'adunavano nella tetra cella; ma con la nuova alba, con il nuovo giorno, nuove luci sfavillavano nel fondo del buio animo.
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