Umberto Adamoli
NEL TURBINIO D'UNA TEMPESTA
(DALLE PAGINE DEL MIO DIARIO. 1943/1944)


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     Ma come sarei stato accolto dai partigiani, che si erano spinti a quella avventura tra tanti consensi, entusiasmi, fermi propositi e belle speranze? E' vero che io avrei parlato a nome della città, delle stesse loro famiglie, dei loro bambini in pericolo, ma le mie parole, anche se salivano dal cuore e dalla sincerità, potevano essere fraintese, sfavorevolmente interpretate. Si poteva vedere nel mio atto, in quel momento colmo di sospetti, un eccesso di zelo, se non un inganno, un tradimento.
     Non andando, mi sarei assunto ugualmente una grave responsabilità. Qualora la sanguinosa minaccia fosse stata effettuata, dal crollo e dalle macerie delle case, con i lamenti dei colpiti, dovevano salire a me il rimbrotto, la maledizione.
     La discussione col Prefetto non poteva non essere larga, minuta, appassionata. Non poteva sfuggire al medesimo la lotta tremenda che si combatteva entro il mio animo.

     In un certo momento, dopo altre riflessioni, qualunque cosa mi potesse capitare, decidevo di andare, a condizione, però, che si accettassero le mie dimissioni da Podestà, appena dopo il ritorno. Mi pareva che dopo quanto stava per accadere non potessi più restare a quel posto. Ma il Prefetto non vi aderiva, e pensava d'affidare quella missione al maggiore Bologna, che faceva ricercare nella campagna. Ma neppure lui, per altre ragioni, poteva compierla.
     La minaccia su Teramo, quindi, non soltanto rimaneva, ma si aggravava, essendo stato ucciso nel frattempo, dai partigiani, quel maggiore medico, che era caduto nelle loro mani.


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Umberto